Onorevoli Colleghi! - La parte principale della presente proposta di legge (articoli 2, 3 e 4) intende affrontare direttamente il drammatico problema del sovraffollamento delle carceri. Come è noto, negli ultimi anni si è mediamente registrato un incremento della popolazione detenuta pari a circa 2.000 detenuti all'anno, risultante dalla differenza fra circa 86.000 nuovi ingressi su base annua e 84.000 dimissioni, sempre su base annua. Nel corso dei primi sei mesi del 2005 il trend di crescita della popolazione detenuta è invece improvvisamente - e, allo stato, per ragioni ancora non completamente individuate - aumentato facendo registrare ben 4.000 detenuti in più nel primo semestre. Anche immaginando un'attenuazione di tale incremento, se questo trend risultasse confermato, confrontando la linea di tendenza con le concrete possibilità di incremento della disponibilità di posti all'interno delle strutture carcerarie, la complessiva tenuta del sistema penitenziario rischierebbe di «saltare» intorno alla metà del 2007.
      È quindi indiscutibile la necessità di un intervento al riguardo e, prescindendo per il momento dalla valutazione delle possibili opzioni normative, il Ministero della giustizia deve comunque farsi carico dell'adozione delle misure che rientrano nella sua esclusiva competenza e che si concretizzano nella necessità di aumentare il numero di posti disponibili nelle strutture penitenziarie. Spetta però al Parlamento contribuire con modifiche ordinamentali, che non possono non toccare alcune disfunzioni dell'ordinamento penitenziario e della normativa codicistica vigenti.
      In particolare, una valvola di sfogo importante può essere rappresentata dalla generalizzazione dello strumento del lavoro di pubblica utilità previsto dall'articolo

 

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54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace. Rendere tale istituto misura alternativa alla detenzione, come forma speciale del genus dell'affidamento, significa disporre della possibilità di abbandonare il carcere per quanti stanno espiando una pena detentiva non superiore a tre anni, all'unica condizione di riavviare uno stile di vita diverso da quello che ne ha determinato l'ingresso nell'istituto. Per ottenere tale risultato si prevede, quindi, l'ammissione del condannato che ne faccia richiesta a una forma di collaborazione con le istituzioni pubbliche al fine di rendersi utili per la società. L'articolo 2 della proposta di legge mira pertanto:

          a) a permettere un riavvicinamento al lavoro quale strumento di realizzazione della personalità del singolo nell'ambito della società civile (articoli 1 e 3 della Costituzione);

          b) a consentire l'utilizzazione dei condannati ammessi al beneficio per l'espletamento di attività lavorativa in favore delle pubbliche amministrazioni e degli altri enti aventi anche forma giuridica privata, ma controllati dallo Stato, e dagli altri enti pubblici, e ciò in ausilio al personale dipendente;

          c) a favorire il migliore impiego di tali soggetti nell'espletamento di tutti quei servizi pubblici che esigenze di bilancio o limitazioni proprie dei singoli enti impedirebbero di gestire al meglio;

          d) a determinare una forma alternativa di espiazione della pena che non si limiti all'osservanza di regole di comportamento, ma si qualifichi per una partecipazione attiva del condannato al proprio reinserimento sociale.

      Vanno poi colte - in positivo o in negativo - le suggestioni di alcune importanti evoluzioni giurisprudenziali.
      La Corte di cassazione (sezione prima penale, sentenza 4 luglio 2005, n. 24632) ha ritenuto che l'esito positivo dell'affidamento in prova non estinguesse la pena pecuniaria, ma solo quella detentiva, perché non era ancora decorso il termine di prescrizione né per la multa, né per le spese processuali. Eppure, la stessa Cassazione ha ricondotto tale lettura al dato testuale, costituito dal fatto che, secondo il disposto dell'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, l'affidamento al servizio sociale deve essere inquadrato tra le misure alternative alla sola detenzione, di guisa che l'esito positivo del periodo di prova non può che comportare l'estinzione della pena detentiva e non anche di quella pecuniaria. Ecco allora che, per procedere all'ineludibile conseguenza del raggiungimento del fine rieducativo della misura alternativa, occorre la modifica testuale proposta dall'articolo 2, comma 2, della presente proposta di legge, precisando che invece ogni effetto penale della condanna viene meno per il proficuo esperimento dell'affidamento in prova, comprese le pene pecunarie.
      Il tribunale di sorveglianza del distretto della corte d'appello di Trieste il 29 ottobre 2002, poi ha emesso ordinanza in cui ha confutato l'orientamento giurisprudenziale che attribuisce al divieto di cui al comma 2 dell'articolo 58-quater della legge n. 354 del 1975, «validità generale ed incondizionata e non circoscritta al singolo procedimento esecutivo nel cui ambito sia intervenuta la revoca della misura alternativa» (si veda, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione 7 novembre 2000, n. 6325): per il proponente della presente proposta di legge deve concordarsi con il tribunale, nel senso di ritenere possibile interpretare detta norma escludendo l'estensione del divieto a titoli esecutivi diversi e sopravvenuti rispetto a quello in corso all'atto della revoca. Ciò in quanto agli argomenti utilizzati dalla Suprema Corte per sostenere l'interpretazione più restrittiva possono contrapporsi altri argomenti che hanno quantomeno pari dignità e che si reputa possono prevalere sui primi per l'adozione di provvedimenti più favorevoli ai condannati. Le conseguenti pronunce di merito consentirebbero di valutare, di volta in volta, la

 

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gravità delle violazioni o delle altre circostanze che hanno comportato la revoca di misure alternative; esse eviterebbero l'appiattimento su rigidi automatismi, non conformi alle plurime pronunce della Corte costituzionale circa l'illegittimità costituzionale di altre norme che prevedevano, appunto, diverse forme di esclusione automatica di soggetti condannati da alcuni benefìci penitenziari. A codificazione di tale orientamento giurisprudenziale tende la novella del comma 2 del citato articolo 58-quater prevista dall'articolo 3, comma 1, della proposta di legge. Lo stesso articolo 3 affronta, al comma 2, anche il problema dello snellimento delle procedure per l'ammissione alle misure alternative dopo la sospensione dell'ordine di esecuzione della condanna sotto i tre anni, secondo le direttrici individuate dai pratici (si veda l'intervento del sostituto procuratore generale della Repubblica di Reggio Calabria, Fulvio Rizzo, dal titolo «Il difficile equilibrio tra domanda di sicurezza, prevenzione comunitaria e solidarietà sociale» nell'ambito del convegno «Realtà e prospettive dell'esecuzione penale esterna», svoltosi a Reggio Calabria il 24 maggio 2003).
      Invece, proprio tale fattispecie di misure alternative pare indebitamente estesa dal recentissimo intervento della Corte di cassazione, sezione prima penale, con sentenza 10 giugno 2005, n. 22161: sostenere che «nell'ordinamento vigente non esiste un divieto di applicazione delle misure alternative al carcere nei confronti degli stranieri espulsi con decreto prefettizio» appare decisamente in conflitto con le esigenze di dare celere corso alla principale delle misure alternative esistente per questa fattispecie, cioè l'espulsione: pertanto, oltre ad inserire un'esplicita esclusione nella disciplina codicistica (articolo 656, comma 8-bis, del codice di procedura penale, introdotto dalla lettera b) del comma 2 dall'articolo 3 della presente proposta di legge), si novella integralmente, all'articolo 4, la disciplina di tale misura sostitutiva e alternativa prevista per il clandestino dall'articolo 16 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
      L'altro tema affrontato dalla proposta di legge è quello della affettività carceraria. Al proposito, con l'articolo 1 si recepiscono i suggerimenti avanzati nella giornata di studi «Carcere: salviamo gli affetti», svoltasi presso la casa di reclusione di Padova il 10 maggio 2002: il gruppo di lavoro che ha elaborato questa bozza è stato guidato dal dottor Alessandro Margara, ex direttore del Dipartimento della amministrazione penitenziaria e uno degli artefici della legge 10 ottobre 1986, n. 663, detta «legge Gozzini», che ha rivoluzionato per molti aspetti le condizioni di detenzione a decorrere dal 1986. Hanno fatto parte del gruppo operatori penitenziari, avvocati, detenuti ed operatori sociali.
      All'articolo 28 della legge n. 354 del 1975, che riguarda i rapporti con la famiglia e che attualmente prevede un unico comma («Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o stabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie»), si ritiene debba essere considerata anche l'affettività in senso più ampio, per cui alla rubrica dell'articolo («Rapporti con la famiglia») si è proposto di aggiungere «e diritto all'affettività». Si lascia poi un ampio spazio alla definizione della natura di quelli che possono essere i «rapporti affettivi»: con un familiare, un convivente, o anche di amicizia. Le visite disciplinate dal novellato articolo 28 possono avvenire con qualsiasi persona che già effettua i colloqui ordinari; l'assenza dei controlli visivi e auditivi serve a garantire l'assoluta riservatezza dell'incontro.
      Altre due modifiche, anch'esse volte a garantire il diritto all'affettività, intervengono sulla parte che riguarda la concessione dei permessi. All'articolo 30 della citata legge n. 354 del 1975, che prevede i cosiddetti «permessi di necessità», attualmente concessi solo in caso di morte o di malattie gravissime dei familiari, si interviene ampliando la fattispecie agli «eventi familiari di particolare rilevanza». Si intende in tale modo riconoscere che anche
 

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gli eventi non traumatici hanno una «particolare rilevanza» nella vita di una famiglia e quindi rappresentano un fondato motivo perché la persona detenuta vi sia partecipe. Gli «interessi affettivi» sono da considerare in senso ampio; quindi, il permesso non deve necessariamente essere trascorso con i familiari, con un coniuge o un convivente, ma può essere trascorso con qualsiasi persona con la quale vi sia un legame affettivo.
      Per quanto riguarda i detenuti che non possono avere colloqui regolari, ad esempio perché i loro familiari e amici abitano lontano dal luogo di detenzione, si propone che vi sia la possibilità di sostituire i colloqui non effettuati con telefonate della durata massima di quindici minuti. Le telefonate non dovrebbero essere limitate ai soli familiari, ma riguardare tutte le persone con le quali vi sia un rapporto affettivo anche fuori della previsione dei «casi particolari».
      Con le modifiche introdotte dall'articolo 1 della proposta di legge si intende garantire il diritto a un'affettività intesa in senso molto ampio: dalla sessualità, all'amicizia, al rapporto familiare. Un diritto all'affettività che sia, in primo luogo, diritto ad avere incontri, in condizioni di intimità, con le persone con le quali si intrattiene un rapporto di affetto.
 

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